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L’anima della Cavalleria

Per onorare degnamente la memoria di Julius Evola, ci sembra soprattutto opportuno porre in rilievo quegli aspetti della sua opera che si promettono come particolarmente fecondi di ulteriori sviluppi dottrinari e pratici. Nulla sarebbe infatti più remoto dalle sue intenzioni e dai suoi voti che il considerare tale opera come un sistema chiuso di idee da ridurre ad oggetto di pedissequi commentari. In tal caso, infatti, si verrebbe inevitabilmente e scivolare in quella “neo-scolastica” che egli non mancò in passato di stigmatizzare senza mezzi termini nei confronti di alcuni discepoli di René Guénon, che tale malinconica sorte avevano riservato al pensiero del loro maestro.

Uno dei casi in cui l’opera di Evola ha maggiormente esercitato il suo influsso rinnovatore è indubbiamente quello della Cavalleria. Tutti sanno, ad un dipresso, che cosa si era soliti intendere per essa nel profano mondo contemporaneo. Scomparsa quasi del tutto, con le moderne guerre totali e meccanizzate e con l’avvento dello stato moderno, invadente e livellatore, ogni residua influenza che il suo spirito poteva ancora esercitare sulla condotta delle pubbliche e private contese, essa si era in pratica ridotta a designare il complesso delle buone maniere da osservarsi in società, specie in riferimento a quel sesso che poteva in qualche misura dirsi debole e gentile, non avendo ancora raggiunto l’attuale stato di degradazione paritaria e femminista.

Dal canto suo, la stessa idea di Ordine Cavalleresco aveva conosciuto un progressivo snaturamento, di pari passo con il fenomeno della regressione delle caste, così magistralmente analizzato da Evola. Dagli antichi Ordini ascetico-militari (sui quali ritorneremo, perché sono gli unici che interessano dal punto di vista tradizionale) si era passati alla cavalleria laica, nazionale  ed onoraria, per giungere infine alla moderna “cavalleria”. Del lavoro, che rappresenta una vera contraddizione in termini, perché la cavalleria è una realtà pertinente ai nobili, mentre il lavoro è proprio delle classi in senso ampio artigiane.

Si era così giunti al punto che alle alte figure medioevali del Cavaliere e del Commendatario si erano venute spesso sostituendo le macchiette del “cavaliruzzu” e del “cumenda”, cui l’ironia popolare siciliana e meneghina non avevano giustamente risparmiato strali.

Di fronte a questa atmosfera di oblio, se non di mistificazione, della vera essenza della Cavalleria, l’opera di Evola giungeva come un temporale rinnovatore. Già nella prima edizione di Rivolta contro il mondo moderno (Hoepli, Milano, 1934) appariva un folgorante capitolo su «L’anima della Cavalleria», nel quale egli rivendicava giustamente l’essenziale e preminente carattere spirituale della Cavalleria, intesa anche quale via di realizzazione interiore. Ad essa si accedeva mediante il rito di ordinazione, che rappresentava una vera e propria iniziazione rituale che, come tale, doveva essere preceduta da una particolare purificazione (digiuno, lavacro, veglia d’armi). Iniziava quindi il cammino spirituale vero e proprio, che aveva il suo modello più caratteristico nella mistica Cerca del Graal. Tale dovette apparire ad Evola l’importanza di quest’argomento, che al Graal, infatti, dopo aver dedicato la prima appendice della accennata opera, consacrò alcuni anni dopo un intero libro (Il Mistero del Graal, Bari, Laterza, 1937). In esso egli portava alla luce l’intima trama sapienziale della c.d. letteratura del Graal, aprendo cosi il varco ad una possibile “restituzione” della spiritualità cavalleresca.

Occorre in proposito precisare subito che essa non appare senz’altro identificarsi alla semplice trasposizione della dedizione, dal sovrano visibile a Quello Invisibile, operata dal grande Ignazio de Loyola. Anche senza poter approfondire, in questa sede, l’arduo e delicato problema, si può dire fin d’ora che il complesso e tipico linguaggio graalico indica, pur nella piena appartenenza alla Cattolicità, una via di realizzazione spirituale più imperiale che ecclesiale. Venne infatti categoricamente affermato che «un Imperatore Cavaliere sia Signore di tutti i Cavalieri» (Raimondo Lullo – Il Libro dell’ordine della Cavalleria, Roma, 1972, pag. 81), anche se fu parimenti stabilito che «regni, quindi, la più grande armonia fra il Clero e la Cavalleria». (ibid. pag. 79).

D’altro canto, una riprova che la via cavalleresca fosse una  via autonoma, ancorché il suo fine fosse «il mantenimento della Santa Sede Cattolica» (ibid., pag. 77), è data dal fatto che spettava ai Cavalieri conferire la Cavalleria le cioè ordinare altri Cavaliere (Carmelo Arnone, Ordini Cavallereschi e Cavalieri, Milano, 1954, pag. 38). E interessante notare, per inciso, che l’opera di Evola ha cominciato ad influenzare anche le semplici trattazioni storico-giuridiche della Cavalleria, dato che l’autore ora menzionato mostra in alcune note della detta opera di avere recepito il pensiero evoliano, facendone espressa citazione.

Sembra opportuno, a questo punto, domandarsi se siano sopravvissute nel mondo contemporaneo realtà atte a servire da supporto per un tentativo di ristabilimento della spiritualità cavalleresca. Per quanto riguarda il necessario presupposto dell’ordinazione cavalleresca, essendo scomparsa del tutto la Cavalleria come istituzione politica e sociale strettamente legata al Medioevo feudale, può farsi oggi riferimento soltanto alle Sacre Milizie giunte fino a noi mantenendo inalterato il loro carattere di Ordini di Croce. Esse sono infatti le uniche che, comportando una vera e propria “professione religiosa”, determinano l’aggregazione ad un organismo spirituale e quindi la partecipazione alla relativa influenza soprasensibile. Circa gli effetti spirituali dell’Ordinazione, così si esprimeva Attilio Mordini: «Gli ordini promanati dai sovrani conferiscono veramente un “potere”, un “Jus” che, attraverso il sangue reale, opera sullo spirito come attraverso un supporto materiale ad informare tutta la persona dell’investito ad una vita più alta e più degna. E ciò in analogia all’atto del sacerdote che per mezzo della “materia” del rituale, nel Sacramento, conferisce un “carattere” di Ordine spirituale» (Ordo Pacis, gennaio-febbraio, 1960, pag. 6).

Più arduo è il problema delle modalità di riconquista spirituale che caratterizzano la via del Cavaliere. In proposito una traccia viene ancora fornita dal Mordini, il quale aggiunge che:

«Solo resta da dire che il potere del sangue, come il potere d’ogni altro germe, rimane infecondo se non trova buon terreno su cui germogliare ed allignare. Se il sacro germe è per il cavaliere il ius sanguinis del sovrano per l’imposizione delle mani o per la piattonata di spada all’atto in cui viene “addobbato milite”, il buon terreno è l’anima dello stesso cavaliere che ha da aprirsi allo “studio” (nel senso letterale latino del termine Studium, e cioè di “impegno”) per trasformare l’essere suo  in quello di uomo “libero”, crocifisso al mondo, ma risorto e rinnovato alla Grazia e all’eroismo» (ibid.).

Solo vi è da aggiungere, come si è accennato, che, trattandosi di una “via” imperiale e quindi ghibellina nel senso più rigoroso del termine, anche le modalità di realizzazione ad essa proprie debbono avere peculiari caratteristiche. In proposito si può solo accennare, a titolo di esempio, all’orazione segreta con i nomi temibili di Dio, adombrata da Chrétien de Troyes (V. Pierre Ponsoye, L’Islam et le Graal, Paris 1957, pag. 15).

Molto più facile appare invece quello che potrebbe essere il compito ”esterno”  di una moderna Cavalleria. A fianco dei tradizionali impegni di soccorso ai deboli ed ai sofferenti dovrebbe essere posto quello del ristabilimento delle verità più alte, trascendenti ed antimoderne della Tradizione, unitamente ad una lotta senza quartiere contro le infinite menzogne storiche e filosofiche proprie di quei movimenti (protestantesimo, rivoluzione liberale, rivoluzione socialista) che hanno sradicato l’Europa dal suo ordine tradizionale, precipitandola nell’attuale caos.

In altre parole, una moderna Cavalleria dovrebbe innanzi tutto atteggiarsi come un Ordo Militum Veritatis, perfettamente fedele all’antico giuramento dei cavalieri, ricordato da Evola:

«Per Dio, che non mente».

di Manuel Pinto